E’ bello portare la fede in giro. In giro per il
quartiere, quando vado a benedire le famiglie. Non ho mai capito perché alcuni
preti hanno abolito la benedizione delle famiglie, in alcuni casi addirittura
demonizzandola come se fosse una sorta di cedimento alla superstizione. Sembra
incredibile ma spesso i preti hanno l’idiosincrasia per l’acqua santa. L’acqua
santa non é un dogma di fede ma una sana tradizione cattolica, che viene
utilizzata per bene – dire, ovvero “ dire il bene” di Dio agli uomini, agli
animali, alle attività e alle cose dell’uomo. E’ un modo per chiedere che
quelle persone siano purificate e protette e quelle cose siano utilizzate per
il bene. Normalmente quando entro nelle case non utilizzo una formula fissa. Chiedo
che in quella casa regga sempre il bene, ne siano allontanati i pericoli. Cerco
di pregare – quando possibile - con tutti quelli che stanno a casa. Le persone
più devote sono le badanti. Hanno quasi tutte una religiosità serena,
normalissima, per nulla cerebrale, molto aperta ai segni della fede.
Quanto all’accoglienza ne ricevo sempre abbastanza.
Contestare che si trovi una metà delle persone ( perché le altre o non ci sono
o – raramente - non aprono) sarebbe come dire che non si celebra la Messa
perché non ci sono abbastanza persone. Mi sembrano obiezioni a una delle forme
ancora più feconde di missionarietà “oggettiva”, che permette un contatto
diretto e immediato con la gente che abita il quartiere.
Questa “ gente” per il parroco è il “ popolo di Dio”,
un’espressione propria del Concilio Vaticano II, molto adatta a indicare che la
“ gens” non sono individui qualsiasi ma sono un popolo che è incamminato e
orientato da Dio verso il compimento della storia.
Non tutti, è vero, accettano. Alcuni dicono di no, con
più o meno cortesia. In rarissimi casi qualcuno esprime il suo “ dissenso” staccando
il cartello che nell’atrio del palazzo indica un’ora e una data. Ricordo una
comicissima situazione in cui qualcuno scrisse un commento sul cartello, per
nulla volgare. Io presi una penna e ci misi la risposta. Poi scendendo vidi la
risposta alla risposta e ovviamente aggiunsi un’ulteriore risposta. Quel
cartello era diventato un tatsebao. Ma solo i cocciuti – lo ammetto - arrivano
a tanto.
Ci sono anche altri modi di portare “ la fede in giro”. Ma
ci sono anche altri “ modi” di nascondere la fede, avendone vergogna o paura o
sentendosi impreparati. Al corso dei fidanzati qualcuno – più sensibile al tema
– diceva che gli “ slogan” di chi è polemico con la fede sono più semplici e più
diretti dei lenti e pazienti ragionamenti che cercano una giustificazione umana
al credere. Per questo spesso si tace o si cede o si passa con il dantesco “
non ti curar di lor”. Mi pare che abbiamo un po’ troppo facilmente digerito
questa opinione. Spesso la paura di dire o di mostrare parte dalla non
dimostrata precomprensione che gli altri, i lontani, non ascoltino comunque.
Portando la fede in giro, mi accorgo ogni volta che non è così. Una persona che
viene a casa tua e ci viene in nome di un principio di non belligeranza, di non
imposizione, di non indottrinamento, raramente è una persona rifiutata. L’uomo
di sempre cerca da sempre cerca persone così. I testimoni di Geova sono molto
più decisi e il loro “ dialogo” non nutre dubbi sullo scopo: far diventare
tutti dei testimoni di Geova. La salvezza, per loro, è solo lì. L’indulgenza e la
tenerezza di chi va in nome di Dio e di Gesù Cristo non ha similitudini con
questi metodi. Ho trascorso intere mezz’ore a parlare con gente “ lontana” che
non voleva perdersi l’occasione di dialogare con la Chiesa e un suo
rappresentante. Ho scoperto nomi e geografie di tante persone passate per la
parrocchia e poi scomparse, rivedendoli con tanta soddisfazione e mai
trovandoli amari o accesi malamente o disturbati dal fatto di essere stati
ri -allacciati. Ho giocato con i
bambini, che sono divertentissimi. Ricordo un ragazzo che mi costrinse a
giocare con un game – boy, felice di vedermi perdere ogni volta e al quale
dovetti chiedere la grazia di lasciarmi andare, anche per l’orgoglio ferito di
ritrovarmi sempre a zero punti. E non dimentico che fu proprio grazie
all’essere entrato in una famiglia con un bambino ( allora) piccolo che undici
anni fa scoprii lo Zambia. Quel mio amico e fratello, Fabio, fu lo strumento
per scoprire un mondo del quale sono ormai parte viva. Né dimentico Nora, una
signor, anche lei una cara sorella, che
si stava involando verso il buddhismo e che grazie a quel contatto così
episodico e fugace, cambiò rotta e amò Gesù Cristo.
La fatica si sente, ci mancherebbe. Un po’ anche
l’umiliazione. Stare minuti interi ad attendere che qualcuno ti apra, mentre ci
sta pensando ( e magari ti accoglie anche un po’ freddamente) è una
umiliazione, lo so, ma fa bene all’anima. Aiuta i cristiani, ministri di Dio, a
non essere arroganti, a recitare ( idealmente) quelle tre “ giaculatorie” che
tanto piacciono a papa Francesco: permesso? Grazie! Scusa!
Se poi riesci a vincere la paura di certi cani, che
sembrano tigri del Bengala, o di altri effetti sorpresa ( uno dei più gustosi è
quando le persone si sono scordate il Padre Nostro o l’Ave Maria e ne recitano
una versione “ apocrifa”), allora sei certo che torni a casa quasi divertito e
meno stanco del solito.
E’ certo che la fede cristiana è in crisi, come lo è ogni
fede in Occidente, a causa del secolarismo. E’ certo che chi ha una fede e ha
vivo il desiderio di parlarne, o di convocare altri all’ascolto, è oggi in
minoranza. E’ certo che il “ nulla” prevale nelle teste di tanti sul “
qualcosa” o sul “ Qualcuno”. Meno certo è che non possiamo fare niente. E
sicuramente molto evidente è che se non rimettiamo in pista un linguaggio
semplice, un approccio popolare, delle modalità che permettano l’ascolto e la
condivisione e solo dopo la predica, noi non andremo meglio, forse peggio.